Intervista a Sandro Mazzola.
di Nicola Manzini

Sandro Mazzola, oltre 500 partite da professionista, 7 anni di calcio giocato a Verona è ormai da dieci,  team manager della società gialloblù. Una presenza importante che ha saputo in questo decennio dare continuità ad un ambiente che ha sofferto molto ed ha visto il passaggio di diversi allenatori e di tanti giocatori. Un grande capitano sul campo, 216 presenze e 4 gol a Verona ma grande riferimento ora anche dalla panchina per mister, giocatori e tifosi.

Il premio “Per sempre Gialloblù” ricevuto qualche anno fa lo ha accomunato giustamente ai grandi personaggi della storia del Verona. Ricordiamo che a Verona ha portato a vivere la vulcanica Donatella e vi stanno crescendo i loro simpaticissimi Camilla e Jacopo.
In questo particolare momento abbiamo voluto sentirlo chiedendogli innanzitutto come sta vivendo questo periodo per essere una persona che non ha mai vissuto molto a casa in particolar modo tante domeniche tra le mura domestiche.

Sto vivendo questo periodo come quasi tutti gli italiani, vale a dire in casa con la mia famiglia, cercando di restare il più possibile sereni, anche se il momento è veramente difficile per tante componenti, la prima delle quali è evidentemente la preoccupazione di salvaguardare la nostra salute. Non ho ricordi onestamente di essere stato così tanto tempo in casa”.

Sampdoria- Verona del mese scorso è stata una partita che ricorderai e ricorderemo tutti, a porte chiuse, una situazione surreale in campo e per quanto si viveva già all’esterno: come l’avete vissuta?
Abbiamo giocato una partita particolare, come lo sono tutte quelle a porte chiuse. Non sono belle partite, sinceramente. Quella di Genova l’abbiamo vissuta cercando almeno per 90 minuti di pensare unicamente al nostro lavoro”.

Un nome ed un cognome importanti, ben portati direi, sia a Piacenza che a Verona sei stato una bandiera un uomo simbolo, un esempio.
Sì, devo dire che ho un cognome e un nome importanti, visto che il mio omonimo è stato un grandissimo calciatore e poi dirigente del calcio italiano. Non posso però dire che l’omonimia mi abbia mai aiutato. Anzi, forse mi ha penalizzato. Da sempre mi chiedono del mio nome e del mio cognome… Che dire? Forse i miei genitori hanno avuto poca fantasia. O forse sono stati lungimiranti. Non voglio essere considerato una bandiera, ma solo una persona umile che ha sempre dato tutto per la squadra: ho sempre fatto il mio lavoro con dedizione, passione, sacrificio, e credo di aver sempre dato il massimo.”

Partiamo dalla tua grande passione per il calcio; tanto calcio giocato e poi questo ruolo da team manager, raccontami come hai iniziato con il calcio e poi come sei arrivato a questo ruolo manageriale.
Il calcio per me è stato ed è ancora oggi tutto: un lavoro, una passione, uno sport, insomma indispensabile come l’aria. Ho iniziato presto da ragazzino, non ho mai mollato, nonostante abbia avuto un infortunio molto grave proprio nei primi anni della mia carriera, ma sono uno silenzioso con la testa dura, non potevo pensare di lasciare la cosa che più amavo, quindi con sacrificio, rinunce e dedizione ce l’ho fatta. Guardandomi alle spalle devo dire che mi è andata anche bene. Il mondo del calcio è difficile, però – quando ti comporti bene e sei corretto –  le tue soddisfazioni te le puoi ritagliare come in ogni ambito lavorativo. Appena ho smesso di giocare, il giorno dopo ho ricevuto una telefonata dall’allora direttore sportivo dell’Hellas Verona. Una chiacchierata e sono tornato a casa con un lavoro da Team Manager. Come sempre mi sono buttato con entusiasmo in questa nuova avventura. Senza prendere pause di riflessione o anni per così dire sabbatici. E forse è anche stata la mia salvezza, perché così mi è sembrato di non interrompere mai la mia routine”.

Ci spieghi in cosa consiste il tuo lavoro?
“Il mio lavoro? Tutti, soprattutto i bambini, quando mi vedono mi dicono: “ah, ma tu sei quello dei cambi?”. E io penso sempre, fra me e me: magari il team manager facesse solo quello.  La domenica si vede solo quello, quando mi vedete seduto in panchina, ma in realtà il lavoro è molto più complesso: il team manager è una figura di collegamento tra società, staff e squadra. Un punto di riferimento, sempre presente sia in ufficio che sul campo. Per questo ruolo il suggerimento è certamente quello di essere muniti di pazienza infinita, di essere diplomatici, disponibili e di avere grande passione per questo sport”.

Non ti sarebbe piaciuto allenare magari qualche partendo da una squadra giovanile?
“Quando stavo per smettere, mi era balenata l’idea di allenare nel settore giovanile, ma onestamente sono stato ammaliato dalla opportunità di cui parlavo prima. Insomma, non ho avuto modo di poterci pensare, perché mi è arrivata subito la proposta di team manager e forse va bene così.
Del calcio giovanile mi piace molto la spontaneità e la genuina passione dei ragazzi, che vanno però lasciati liberi di godersi la propria passione, senza stress, senza isterismi, senza ingerenze da parte dei genitori. Consiglio ai giovani di essere se stessi, di giocare liberi, di non farsi condizionare, di sognare, di metterci sempre impegno e disciplina. Insomma, le caratteristiche e le peculiarità che servono nella vita di tutti i giorni”.

Da giocatore avevi un allenatore “preferito”?
“Non vorrei fare torti a nessuno: tutti, a loro modo, mi hanno insegnato qualche cosa. Di allenatori ne ho avuti parecchi. Se proprio devo fare un nome, dico Carlo Ancelotti, che forse mi ha lasciato qualcosa in più degli altri. Adesso come Team Manager non ho una preferenza particolare. Tutti hanno qualcosa che mi piace. Quello perfetto sarebbe il mix di tutti”. 

Dimmi cosa avresti voluto fare in campo e non sei mai riuscito a fare
“Non so: onestamente mi sono tolto un sacco di soddisfazioni, ho calcato i campi di tutta Italia, ho incontrato campioni di tutti i calibri, forse avrei potuto fare più gol. Ma è andata bene così”.

Il futuro del calcio professionistico in Italia come lo vedi dopo questo stop, le difficoltà economiche sicuramente ridimensioneranno le società calcistiche
“Tutti i settori professionali e lavorativi sono in difficoltà, in questo momento delicatissimo per la salute e per la sanità, priorità in nome delle quali ci siamo dovuti fermare. Credo però che anche il calcio ripartirà, ovviamente appena sarà possibile e con tutte le garanzie e gli accorgimenti necessari. Il calcio non è solo una delle prime industrie del nostro Paese, ma ha anche un grande valore sociale, perché è motivo di svago, di distrazione, di gioia”.

Sandro Mazzola chiude con un augurio: “Come tutti, auspico anzitutto serenità e salute. Mi auguro anche che questo lungo periodo di ‘stop’ obbligato sia servito a farci riflettere, ad avvicinarci di più ai nostri cari, e che ci abbia anche fatto capire che l’unione fa la forza. Voglio infine ringraziare chi sta lottando ogni giorno per permetterci di superare questo momento difficile”.

Per una volta non abbiamo chiesto a capitan Mazzola di Juric, Pazzini e della squadra; avevamo desiderio e curiosità di far conoscere “l’uomo dei cambi”. Certamente l’uomo schivo e taciturno che conosciamo ha molto da dire e noi l’apprezziamo proprio perché il suo silenzio e i suoi sguardi sono l’immagine del calcio che amiamo.
Buon lavoro Capitano!

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